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Facebook è morto e anche instagram non si sente molto bene

5 Febbraio 2020 by costanza Leave a Comment

Stephen King ha chiuso il suo profilo facebook perché non tollerava più la mole di fake news che gli propinavano e anche la mancanza di tutela della privacy.

I'm quitting Facebook. Not comfortable with the flood of false information that's allowed in its political advertising, nor am I confident in its ability to protect its users' privacy. Follow me (and Molly, aka The Thing of Evil) on Twitter, if you like.

— Stephen King (@StephenKing) February 1, 2020
il tweet di Stephen King

Nulla di nuovo sotto il sole, quando ti danno un servizio gratis, ormai lo sappiamo, il minimo che ti possa capitare è che usino i tuoi dati personali. E facebook e instagram e tutti gli altri, essendo servizi gratuiti, lo fanno che vi piaccia o no, che vi scandalizziate oppure no.

La novità sta nel fatto che finalmente qualche personaggio pubblico ha deciso che si può vivere bene, anzi meglio, senza Facebook. E possiamo sperare che molti dei suoi fans seguiranno a ruota. Che facebook non fosse in buone condizioni di salute lo avevamo intuito da un po’, che molti intellettuali stiano rinunciando a molti social in favore di twitter è un dato di fatto.

Twitter sta diventando sempre più congeniale: un social in cui si può esprimere il pensiero e basta, senza foto filtrate ed egoriferite, senza giochini stupidi di facebook, senza regalare informazioni personali a iosa.

Non che twitter non sia un social network come tutti gli altri, ma il tipo di utenza non sollecita di raccontare per filo e per segno cosa si sta facendo in un determinato momento. Diciamo che twitter è meno riferito alla telecronaca della propria quotidianità e più alla espressione del proprio pensiero.

Dopo la morte di facebook, che avverrà presto, preconizzo l’agonia prossima ventura di instagram, che verrà abbandonata da egocentrici di tutto il globo in favore di tiktok o chissà che altro, sapete perché? Perché instagram sta cercando di mostrarsi pensante, con i post chilometrici che sollecita ai suoi influencer e ai social media manager per attirare l’attenzione dei suoi algoritmi.

E mostrarsi pensanti mentre ti fai un selfie sexy cercando il filtro giusto e la luce giusta e allo stesso tempo tieni in mano l’aspirapolvere da vendere…, è molto difficile.

approfondiamo:

  • Why people leave Facebook

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Le prediche dei social

19 Gennaio 2020 by costanza Leave a Comment

Le prediche degli influencer

Tra una story e l’altra parte il messaggio di insegnamento morale: quando gli influencer ci insegnano a vivere e a pensare

Non so se sia peggio la stupidità di certi influencer che si mettono in posa a tutte le ore del giorno agghindati in modo da valorizzare lo stilista che gli ha regalato i vestiti, o se sia più deleteria (per la mia psiche) la somministrazione di valori morali via social.

Mi spiego: seguo regolarmente moltissimi account, vorrei dire per ‘interesse professionale’, in realtà è una curiosità morbosa per tali account: vedo cosa fanno, con chi litigano, come si vestono… è come giocare con la Barbie, quando ti inventavi le storie cambiandole d’abito. Qui dentro la Barbie è sostituita dalle influencer (dovrei essere corretta e dire gli influencer? No, perché vi piaccia o no, la percentuale di donne che fa questo mestiere è altissima e io seguo prevalentemente donne influencer). Cosa fanno? Si vestono natalizie a dicembre, da sci a gennaio, poi a Carnevale vanno a un evento mascherato e a Pasqua mi vendono la colomba possibilmente solidale, ogni stagione ha i suoi prodotti/vestiti da promuovere e così per me il giochino è scoprire cosa cazzo si inventeranno oggi per intrattenermi.

Fin qui abbiamo capito che è la natura stessa del mezzo di comunicazione e di chi lo usa. Non andiamo oltre nell’analisi.

Ultimamente stanno spuntando, o meglio si stanno riciclando, gli influencer predicatori: sempre agghindati alla guisa di instagram, cioè carini, colori pantone, simpatia e battuta politically correct, qualche parolaccia che avvicina il popolo, ma ecco che tra una story e l’altra parte il messaggio, sotto forma di story, di post testuale o di foto filtratissima con sotto il pippone sul tema serio di turno.

Nelle ultime settimane ho assistito alla predica contro il sessismo nei confronti delle book influencers, a favore dell’empowerment femminile, contro il politico che tutti conosciamo e che non nomino per non essere tacciata di salvinismo (ops!) e negli ultimi giorni contro il povero Amadeus che con la sua uscita infelicissima sulle donne a Sanremo sta rischiando il linciaggio, morale.

A parte la sollevazione popolare (social) per boicottare Sanremo, mi sono dovuta sorbire predicozzi a non finire sul significato di sessismo, sul valore delle donne, ‘a morte il fallocrate!’. Se poi a questo aggiungiamo la policy dei social che incoraggiano e premiano con i loro algoritmi tutto ciò che sia gender fluid, bannano tutto quanto possa anche lontanamente assomigliare a hate speech, capite bene in che senso siano omologate tutte le prediche.

E parlo di prediche perché mi è sembrato di tornare alle medie e sentire i miei insegnanti, preti, che mi spiegavano la morale cattolica (ovviamente molto diversa dalla morale dei social). Forse qui non siamo in ambito religioso, ma a sentire il paternalismo con cui alcuni influencer spiegano ai follower come si deve vivere e soprattutto come si deve pensare, mi è venuto un improvviso, quanto inspiegabile, desiderio di andare a messa.

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E io ti banno e ti segnalo

11 Gennaio 2020 by costanza 1 Comment

E’ un vero e proprio giochino, come si faceva all’asilo, solo che purtroppo sta invadendo la vita vera e non solo quella virtuale.

Vi ricordate quando un compagno vi diceva: ‘Sei brutta?’ e tu gli rispondevi: ‘E io lo dico alla maestra!’ ?

Be’, siamo tornati a quei tempi lì, solo che nel frattempo siamo tutti, chi più chi meno, cresciuti. E il modello lo dico alla maestra lo replichiamo tutti i giorni grazie all’educazione che Mark Zuckerberg ci ha impartito attraverso facebook e instagram.

Sto parlando della vicenda delle book influencers che si sono schierate contro Parente per aver scritto un articolo di satira (consiglio a tutti di andare sullo Zingarelli a vedere significato e storia della parola) in cui prendeva in giro le book influencer che fanno foto carine con libri da promuovere.

Leggendo la valanga di insulti a Parente e la levata di scudi contro di lui e d’altra parte pochissimi indignati per ciò di cui è stato oggetto (cancellazione dell’account da parte di instagram e valanga di insulti personali anche nei confronti della figlia, una bambina di 7 anni!) mi sono venute in mente una marea di considerazioni che provo a mettere insieme:

  • se andiamo a vedere, tra l’autore dell’articolo (scrittore di 50 anni) e l’oggetto dell’articolo (influencer trentenni o più giovani) c’è una profonda differenza generazionale: i trentenni di oggi sono stati educati per bene da Zuckerberg con la cultura del ban: ‘Se tu non la pensi come me io ti banno‘. Questo è quello che facebook ha fatto sin dall’inizio e che ha scritto nelle sue guidelines (riga dritto se no ti cancello l’account), educando le generazioni venute dopo la mia con questa mentalità. Un cinquantenne è invece abituato alle polemiche, al sarcasmo e alle idee diverse dette con ironia, rabbia o educazione, poco importa, lo scambio di idee è alla base di ogni crescita, il consenso ottuso porta, forse, solo ad aumentare i like e vendere più asciugacapelli.
  • chi frequenta i social ha ben presente il meccanismo della delazione: se uno non la pensa come me, mi sta antipatico o altro io lo segnalo al social in questione e se ci sono tante segnalazioni gli viene sospeso l’account. Fate un po’ voi, basta coalizzarsi e la Ferragni potrebbe avere l’account sospeso (o forse no, perché lei fa fatturare anche instagram e uno ‘scrittore qualunque’ no).
  • negli anni d’oro dei blog, quelli che hanno dato voce ai lettori tramite i commenti prima che arrivasse facebook (e che hanno avuto il merito di bypassare i ‘fornitori di notizie con patentino’) c’erano i flame creati ad arte da blogger che volevano suscitare polemiche e interesse al proprio blog, i flame erano commenti a valanga in calce a un post polemico o provocatorio che portavano visibilità a un blog magari sconosciuto.
    La differenza con i flame creati dai post sui social oggi era che il blogger aveva in mano la chiave del proprio blog (e non Zuckerberg) e poteva decidere di zittire (bannare) un commentatore molesto, ma se lo faceva lo si capiva subito dal fatto che il flusso di botta e risposta risultava monco, e il blog perdeva immediatamente credibilità e quindi di solito non lo faceva, perché un blog era di valore solo se aveva tanti commenti, anche di critica negativa. Era il bello delle discussioni nate dalla rete.
    I social hanno stravolto e cambiato questo modello: sono i social ad avere le chiavi del tuo account, tu sei solo ospite loro e quindi devi seguire le guidelines di fb o instagram che ti dicono cosa puoi o non puoi scrivere e pubblicare. Infine la nascita degli influencers e la loro continua ricerca di consensi e followers ha fatto sì che gli influencer stessi censurino da soli tutto quello che viene postato per 2 motivi:
    1 – per creare un personaggio vincente con tanto consenso generale e plauso continuo;
    2 – per evitare di innervosire chi tiene le chiavi della piattaforma, che è colui che poi gli permette di portare a casa da mangiare.
  • infine, l’ultimissima considerazione è sul medium sul quale il dibattito è nato ed è esploso, che non è instagram bensì un quotidiano, Il Giornale, che risponde a logiche diverse. Un articolo scritto su un mezzo diverso dai social non può essere bannato o cancellato o segnalato, perché lì Zuckerberg non ha giurisdizione (per ora). Perciò viene portato sui social dove così sottostà alle regole dei social, e l’autore dell’articolo può essere cancellato dai social per aver avuto un comportamento non consono alle guidelines fuori dai social. Questo è il futuro che ci aspetta.

Disclaimer: non conosco Parente e non mi è nemmeno particolarmente simpatico, in compenso conosco gli account su instagram che promuovono libri come fossero biscotti alla nutella, e li ho sempre criticati e derisi e continuerò a farlo.

Disclaimer n. 2: sono di sesso femminile e non posso essere tacciata di sessismo perché critico le bookinfluencers che sì, sono quasi tutte donne, e usano codici linguistici e fotografici che piacciono alle donne, inutile negarlo. Il marketing e la pubblicità online si basano sulla categorizzazione, proprio quella che la cancel culture vuole eliminare.

da leggere non solo l’articolo incriminato, ma anche e soprattutto questo sempre su instagram.

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Chi tocca gli influencers…

8 Gennaio 2020 by costanza Leave a Comment

Instagram cancella chi parla male degli influencers

Nessuna sollevazione popolare in difesa di chi è stato cacciato da instagram per avere espresso un’opinione o meglio, aver scritto un articolo di satira.

L’editoria è in crisi… lo ha già detto qualcuno? Ok, non fa ridere, di sicuro non fa ridere tutti quelli che ci lavorano e sono molti, e che negli ultimi anni hanno visto chiudere quotidiani, magazine e ridurre drasticamente la vendita dei libri.

Per cui capisco i tentativi di spingere in qualsiasi modo la vendita: i quotidiani spacciano per articoli e notizie quelli che un tempo sarebbero dovuti essere i publiredazionali, chiaramente distinguibili dal resto delle notizie, per non trarre in inganno il lettore. (E così oggi ci troviamo interviste quotidiane sul Corriere, ad esempio, a inserzionisti pubblicitari per accontentarli e spingerli a investire ancora.)

E i libri? La situazione della maggior parte delle case editrici è tragica, lo sappiamo, e gli autori che hanno la possibilità di pubblicare, poi promuovono a proprie spese (chi con i propri followers, chi organizzando eventi ), ma di guadagni ce ne sono pochi.

La tentazione allora di rivolgersi all’influmarketing anche per il settore librario è ovvia, e così ci ritroviamo inondati da book influencers, o influencers tout court adattati all’uopo, che ci propinano emozioni, colori pantone, carte da parati, caffé milanesi fintissimi per spingere la copertina di un libro come un biscotto alla nutella qualsiasi. Lo racconta Massimiliano Parente su Il Giornale, articolo da leggere per capire come il marketing editoriale abbia preso una deriva a volte esilarante. E puntuale è arrivata l’indignazione di influencer di ogni tipo a difesa delle book influencers menzionate da Parente.

Quello che penso spassionatamente è che il marketing replicato all’infinito e oltre con modelli e schemini preconfezionati a me personalmente ha rotto. E in ambito librario mi irrita particolarmente. E sapete cos’altro mi irrita? L’indignazione che si leva per una critica a un modo di lavorare… io trovo che le critiche siano utili, costruttive e servano a far riflettere.

Ma gli influencers, non solo di libri, che sono abituati a cancellare metodicamente i commenti negativi dai loro post, e insultare chi non la pensa come loro, rimangono spiazzati quando qualcosa viene pubblicato su un medium che non può essere modificato a loro piacimento.

aggiornamento del 10/1/2020: l’account di Massimiliano Parente è stato chiuso da instagram.

La cosa è molto grave, ma non vedo nessuna sollevazione popolare in difesa di chi è stato cacciato da instagram per avere espresso un’opinione o meglio, aver scritto un articolo di satira, e si sa che la satira è la prima a essere censurata in tempi di oscurantismo.

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Tessere fedeltà. Fedele a chi?

28 Dicembre 2019 by costanza Leave a Comment

le app ci monitorano sempre

“Se non hai nulla da nascondere perché non ci dai tutti i tuoi dati?” il boom delle tessere fedeltà e i dati che regaliamo senza rendercene conto.

Nei primi anni 90 Esselunga a Milano era già un marchio che ispirava fiducia, oggi più che mai, e io ne sono una cliente più o meno affezionata. Esselunga aveva lanciato le prime tessere fedeltà per i suoi clienti, una tessera con il tuo nome (e indirizzo e forse numero di telefono, questi i dati che le davamo) che ti faceva raccogliere punti, e dopo averne raccolti un tot avevi diritto a un regalo.

L’entusiasmo dei milanesi che frequentavano Esselunga era tangibile, io come sempre polemica mi ero cimentata in una discussione con le mie colleghe di ufficio:

‘Se mi regalano qualcosa, che cosa vorranno poi in cambio?’ chiedevo, e loro a ridere del mio scetticismo.

‘Ma il regalo serve solo a fidelizzare i consumatori’, e io:

‘Sì, certo, e il fatto che possano sapere esattamente cosa acquisto quando vado da loro?’

‘Be’, ma se anche lo sanno cosa cambia? Che cos’hai da nascondere?‘* E lì mi dilungavo in tesi complottiste senza avere, lo ammetto, alcuna nozione di marketing predigitale, però la cosa mi suonava male.

25 anni dopo Esselunga insiste con i suoi clienti affinché invece della tessera installino l’app sul telefonino, per comodità. Non devo venire a spiegarvi io il motivo, basta leggere le clausole: geolocalizzazione, notifiche push, pubblicità personalizzata, identificazione dell’indirizzo IP… ho letto di volata le condizioni e l’uso dei dati, ma queste sono più o meno le richieste.

Io non ho più né la tessera né la app, né di Esselunga né di Sephora né di Ovs, né di Coop… e potrei continuare all’infinito, lo sapete meglio di me. Anzi, appena vado alla cassa di un qualsiasi negozio in automatico, senza pensare, dico: ‘Non ho la tessera, grazie, e no non desidero farla’. Se uso un tono molto assertivo, ho imparato, non battono ciglio.

Se invece volete avere le tessere fedeltà del vostro marchio preferito, è comunque il caso di iniziare a leggere con attenzione le condizioni d’uso delle app che installate, ormai abbiamo tutti gli strumenti online per capire anche termini astrusi, e una volta lette vedrete che vi passerà la voglia di installarle.

Molte app, e qui non sto parlando ovviamente solo di tessere fedeltà, hanno accesso alla nostra rubrica, ad esempio, e così invadono la privacy mia e anche quella dei miei amici. Il caso di Linkedin che anni fa ha pagato una supermulta di 13 milioni di dollari negli Stati Uniti per avere attinto bellamente alle caselle di posta elettronica dei suoi iscritti non ha insegnato molto.

E se penso alla privacy dei miei figli che scaricano app gratuite di giochi e giochini, mi vengono i brividi, perché del GDPR non credo interessi molto a un produttore qualsiasi di app che ha sede ad esempio in Cina.

Quindi la mia filosofia online oggi è: iniziamo ad essere fedeli a noi stessi, prima che ai marchi! Che siano marchi di supermercati, di moda o di social media.

p.s.: le condizioni d’uso delle app dei grandi marchi spiegano bene come non farsi profilare ‘troppo’; il problema è che il loro concetto di privacy è ben diverso dal mio: un esempio, per me la pubblicità mirata è un’invasione della mia privacy, la prova che ogni mia navigazione è stata memorizzata e analizzata. E il linguaggio fintamente rispettoso con cui lo scrivono, non deve trarci in inganno: impariamo a leggere e interpretare, con la nostra sensibilità, tutte le voci a cui diamo il permesso di operare sul nostro smartphone!

disclaimer: non essendo un’influencer, faccio nomi di marchi senza alcun intento di adulazione né di denigrazione, sono funzionali al racconto del mio pensiero.

*frase diventata celebre oggi in epoca social, da quando facebook pretendeva il nostro vero nome e cognome per avere un account (‘tanto, cos’hai da nascondere?) a quando i blogger non sono più stati anonimi ‘tanto, cos’hai da nascondere?’ e hanno iniziato a raccontarci per filo e per segno ogni attimo della loro vita. Per non parlare degli influencer, che hanno perso ogni minimo senso del pudore… ho visto cose che voi umani non potete sapere, o meglio, lo sapete benissimo frequentando ogni giorno le stories di instagram.

Siccome l’ignoranza non paga, leggiamo:

  • Per ogni smartphone 80 app spia
  • Le cose da fare (semplici) per tutelare la privacy
  • Quello che The Great Hack non vi ha detto di Cambridge Analytica
  • How do companies use my loyalty card data?
  • Sicurezza online

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C’è grossa crisi

21 Dicembre 2019 by costanza Leave a Comment

Eventi motivazionali (a pagamento): la nuova frontiera degli influencer

Mi diverto un mondo a scovare nuovi account motivazionali su instagram, nel 2019 si sono assestati dei modelli di business che più o meno possono essere classificati così:

  • account di influencer che mi dicono: ‘Ce la puoi fare qualsiasi cosa tu voglia, basta volerlo’. Quindi io in teoria mi illudo di poter fare qualsiasi mestiere solo con la forza di volontà e la grinta. Poi il discorso dell’influencer continua più o meno così: ‘Ah, se però compri il corso a pagamento che ho creato io, hai più possibilità di farcela.’ Se me lo dicevano a 18 anni ci avrei creduto e non avrei studiato, il problema è che i miei figli hanno proprio l’età in cui questi messaggi fanno breccia. E i risultati li vedremo poi.
  • account di psicologi/psicoterapeuti che mi esortano: ‘La vita è come una scatola di cioccolatini, non sai mai quello che ti capita’, ehm no forse quello era Forrest Gump. Comunque, la psicologia da baci perugina imperversa, è instagrammabile soprattutto se tu psicologo ti crei il personaggio e pontifichi da mattina a sera, e se sei donna tra un testo motivazionale e un altro ci metti il capo di abbigliamento sexy e il tacco alto (sponsorizzato).
  • account di imprenditori/trici (qui che non posso usare l’asterisco come faccio a essere gender neutral? ah, sì imprenditor* e cambiamo l’italiano che tanto se si può cambiare sesso in un batter d’occhio solo col pensiero, perché non la grammatica?)
  • account di coach, questi sono i più divertenti, perché uniscono lo spirito imprenditoriale alla psicologia finanche alla religione o meglio, sono un surrogato di ‘credo religioso’ che va a colmare il vuoto lasciato dalle religioni ormai un po’ démodé. E qui ci si diverte, perché il clou è quando ci sono gli eventi, che riuniscono migliaia di fedeli, scusate di followers, in teatri, palazzetti dello sport e tutti si esaltano con musiche e discorsi motivazionali. E i predicatori, cioè gli influencer, predicano con la retorica preconfezionata dal modello Ted Talk, cioè tutti con lo stampino, basta impararlo e diventi predicatore anche tu.
  • poi ci sono gli influencer culturali, quelli che spacciano libri ma non in maniera noiosa, sono frizzanti, carini, intellettuali al punto giusto, ma parlano semplice per non turbare le persone che si ostinano a scrivere qual è con l’apostrofo, e per convincerli a comprare libri. Si fanno fotografare nel caffè con carta da parati dal colore pantone di moda quest’anno, il Living coral (spoiler: nel 2020 sarà… il classic blue, preparatevi a vederlo su ogni foto instagram).
    update: (dovete leggere assolutamente questo articolo di Massimiliano Parente sull’argomento book influencers … ).
  • infine aggiungerei come corollario a questa carrellata i predicatori, o meglio le predicatrici, perché ho calcolato che la maggior parte sono donne: e qui ne avrei da elencarne, ma essendo vigliacca, non vorrei ritrovarmi nel vortice dei flame che sanno innescare quando predicano il rispetto e si impegnano in campagne contro l’odio online, salvo poi sputare veleno su chi osa mettere in discussione il loro pensiero.

Sapete che cos’hanno in comune tutti questi figuri che nascono e crescono con la velocità di un fungo? La VENDITA, tutti ma proprio tutti vogliono vendermi qualcosa: il corso, la dieta, il merchandising, il benessere psicologico, il libro, la felicità… e io che passo tutto il mio tempo libero su instagram, che è un social nato per vendere (come tutti gli altri ovviamente), mi chiedo anche perché in un anno non ho concluso niente della mia vita e ho speso tanto in cazzate?

Forse è il caso di rivedere i miei buoni propositi per il 2020. Immediatamente!

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Non si vive di solo instagram

18 Dicembre 2019 by costanza Leave a Comment

Milano, mendicante in Piazza Duomo

L’abbellimento della realtà va bene per vendere un prodotto, e se Milano è diventata solo un prodotto da vendere, gli amministratori di Palazzo Marino facciano una riflessione, disinteressata.

Ho un’allergia particolare all’entusiasmo ottuso.

E devo dire che negli ultimi anni il marketing online ha incoraggiato l’atteggiamento ‘la vita è bella, tutto va bene, dobbiamo essere entusiasti, troviamo solo il bello delle cose e dimentichiamo le brutture’. Purtroppo quello che va bene online per vendere un paio di mutande non è detto che si debba per forza trasportare offline. Il marketing nella politica e nella società è deleterio. E lo vedo ogni giorno a Milano, vittima del marketing positivo degli ultimi anni, da Expo in poi diciamo.

La classifica del Sole 24 ore uscita ieri che vede al primo posto Milano per la qualità della vita, è un classico esempio di questo marketing. E non voglio negare nessun merito a Milano, dove si trova lavoro, si hanno mille opportunità, business, cultura, comodità (no, comodità no). Ma non è questo che intendo. Il male che si fa a una città esaltandone solo i lati positivi e fingendo di non vedere quelli negativi perché non sono ‘instagrammabili’ ha delle conseguenze, soprattutto su chi ci vive.

Milano, prima in classifica per qualità della vita 2019

Mi diverto in particolare a seguire gli account instagram di chi ci vive da pochi mesi e posta foto filtratissime in cui i colori di una Milano grigia e piovosa vengono virati ai colori pantone di moda quest’anno.

Negozio Lego a San Babila

E rido a leggere influencer che consigliano locali aperti da un mese come luoghi imperdibili tipici della Milano vera. Perché uno dei tanti danni lasciati da Expo sono proprio le centinaia di bar, ristoranti, focaccerie, pizzerie, risotterie, toasterie… che aprono e chiudono di continuo per riciclare danaro, e vengono ristrutturati, chiusi e riaperti dopo essere di nuovo ristrutturati.

Milano, le vie dello shopping

Riflettete un attimo prima di postare, cari influencer: per capire una città, che sia Milano o qualsiasi altra, bisogna vedere e fotografare tutto, anche i mendicanti che stazionano a ogni angolo della strada e fuori da ogni supermercato: rom, sinti, nigeriani, italiani.

Milano, Corso Venezia

Bisogna raccontare nei post anche la maleducazione negli uffici pubblici, o l’impossibilità di trovare un taxi a ogni ora del giorno, l’ansia che cresce a dicembre quando la città va in tilt per il traffico, magari piove e ti piazzano anche una manifestazione che costringe tutti a spostare impegni di lavoro o familiari. E provare poi ad andare in un bagno qualsiasi, di un bar o di un cinema (un’esperienza mistica la potete provare se vi capita di andare al Tribunale di Milano e avete bisogno di fare pipì).

L’abbellimento della realtà va bene per vendere un prodotto, e se Milano è diventata solo un prodotto da vendere, gli amministratori di Palazzo Marino facciano una riflessione, disinteressata.

Buon Natale a tutti i nuovi milanesi! L’augurio di cuore è che non vi siate fatti attirare in questa città solo da una sofisticata operazione di marketing post expo.

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Blog vs Instagram

12 Dicembre 2019 by costanza Leave a Comment

selfie in camera da letto

Se avete notato i post su instagram sono diventati sempre più lunghi e articolati rispetto ai primi tempi. La formula: foto + testo lunghissimo e motivazionale sta diventando la norma. Perché funziona e fidelizza i followers. Mi faccio paura da sola a usare nella stessa frase il verbo fidelizzare e il sostantivo follower.

I motivi sono vari, prima di tutto che gli utenti hanno ormai abbandonato siti, blog e anche facebook, tutti luoghi in cui la scrittura aveva un ruolo importante e si sono spostati su intagram dove l’immagine è ‘the king’. Però però se usi solo ed esclusivamente immagini diventa un album delle figurine panini, bello ma inutile.

E qui i guru del social media marketing hanno iniziato a fare meno foto, ma con testi motivazionali e profondi, si fa per dire, per vendere pentole/coaching/corsi/makeup…

E allora mi chiedo: mi piace scrivere, articolare il mio pensiero e devo ridurmi a farlo su uno smartphone per essere letta mentre uno attraversa la strada? O peggio, devo confezionare stories a go go, con testi pieni zeppi di refusi mentre sono al bar a mangiare un piatto di avocado toast?

Ho capito da un bel po’ che adeguarsi senza spirito critico al nuovo che avanza può essere un segno di modernità ma anche di stupidità. Per cui mi sono detta: ma il buon caro vecchio blog? Forse ha ancora senso, posso scrivere dal mio computer con megamonitor, pensare e rileggere quello che scrivo. Senza fretta.

E le stories che testimoniano partecipazione a eventi/party/convegni… a me non servono poi a molto, dal momento che la mia massima aspirazione è starmene seduta a scrivere.

Lascio dunque il piacere di creare stories glamourous a chi non ha ancora raggiunto la saggezza dei miei cinquant’anni.

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