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C’è grossa crisi

21 Dicembre 2019 by costanza Leave a Comment

Eventi motivazionali (a pagamento): la nuova frontiera degli influencer

Mi diverto un mondo a scovare nuovi account motivazionali su instagram, nel 2019 si sono assestati dei modelli di business che più o meno possono essere classificati così:

  • account di influencer che mi dicono: ‘Ce la puoi fare qualsiasi cosa tu voglia, basta volerlo’. Quindi io in teoria mi illudo di poter fare qualsiasi mestiere solo con la forza di volontà e la grinta. Poi il discorso dell’influencer continua più o meno così: ‘Ah, se però compri il corso a pagamento che ho creato io, hai più possibilità di farcela.’ Se me lo dicevano a 18 anni ci avrei creduto e non avrei studiato, il problema è che i miei figli hanno proprio l’età in cui questi messaggi fanno breccia. E i risultati li vedremo poi.
  • account di psicologi/psicoterapeuti che mi esortano: ‘La vita è come una scatola di cioccolatini, non sai mai quello che ti capita’, ehm no forse quello era Forrest Gump. Comunque, la psicologia da baci perugina imperversa, è instagrammabile soprattutto se tu psicologo ti crei il personaggio e pontifichi da mattina a sera, e se sei donna tra un testo motivazionale e un altro ci metti il capo di abbigliamento sexy e il tacco alto (sponsorizzato).
  • account di imprenditori/trici (qui che non posso usare l’asterisco come faccio a essere gender neutral? ah, sì imprenditor* e cambiamo l’italiano che tanto se si può cambiare sesso in un batter d’occhio solo col pensiero, perché non la grammatica?)
  • account di coach, questi sono i più divertenti, perché uniscono lo spirito imprenditoriale alla psicologia finanche alla religione o meglio, sono un surrogato di ‘credo religioso’ che va a colmare il vuoto lasciato dalle religioni ormai un po’ démodé. E qui ci si diverte, perché il clou è quando ci sono gli eventi, che riuniscono migliaia di fedeli, scusate di followers, in teatri, palazzetti dello sport e tutti si esaltano con musiche e discorsi motivazionali. E i predicatori, cioè gli influencer, predicano con la retorica preconfezionata dal modello Ted Talk, cioè tutti con lo stampino, basta impararlo e diventi predicatore anche tu.
  • poi ci sono gli influencer culturali, quelli che spacciano libri ma non in maniera noiosa, sono frizzanti, carini, intellettuali al punto giusto, ma parlano semplice per non turbare le persone che si ostinano a scrivere qual è con l’apostrofo, e per convincerli a comprare libri. Si fanno fotografare nel caffè con carta da parati dal colore pantone di moda quest’anno, il Living coral (spoiler: nel 2020 sarà… il classic blue, preparatevi a vederlo su ogni foto instagram).
    update: (dovete leggere assolutamente questo articolo di Massimiliano Parente sull’argomento book influencers … ).
  • infine aggiungerei come corollario a questa carrellata i predicatori, o meglio le predicatrici, perché ho calcolato che la maggior parte sono donne: e qui ne avrei da elencarne, ma essendo vigliacca, non vorrei ritrovarmi nel vortice dei flame che sanno innescare quando predicano il rispetto e si impegnano in campagne contro l’odio online, salvo poi sputare veleno su chi osa mettere in discussione il loro pensiero.

Sapete che cos’hanno in comune tutti questi figuri che nascono e crescono con la velocità di un fungo? La VENDITA, tutti ma proprio tutti vogliono vendermi qualcosa: il corso, la dieta, il merchandising, il benessere psicologico, il libro, la felicità… e io che passo tutto il mio tempo libero su instagram, che è un social nato per vendere (come tutti gli altri ovviamente), mi chiedo anche perché in un anno non ho concluso niente della mia vita e ho speso tanto in cazzate?

Forse è il caso di rivedere i miei buoni propositi per il 2020. Immediatamente!

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Non si vive di solo instagram

18 Dicembre 2019 by costanza Leave a Comment

Milano, mendicante in Piazza Duomo

L’abbellimento della realtà va bene per vendere un prodotto, e se Milano è diventata solo un prodotto da vendere, gli amministratori di Palazzo Marino facciano una riflessione, disinteressata.

Ho un’allergia particolare all’entusiasmo ottuso.

E devo dire che negli ultimi anni il marketing online ha incoraggiato l’atteggiamento ‘la vita è bella, tutto va bene, dobbiamo essere entusiasti, troviamo solo il bello delle cose e dimentichiamo le brutture’. Purtroppo quello che va bene online per vendere un paio di mutande non è detto che si debba per forza trasportare offline. Il marketing nella politica e nella società è deleterio. E lo vedo ogni giorno a Milano, vittima del marketing positivo degli ultimi anni, da Expo in poi diciamo.

La classifica del Sole 24 ore uscita ieri che vede al primo posto Milano per la qualità della vita, è un classico esempio di questo marketing. E non voglio negare nessun merito a Milano, dove si trova lavoro, si hanno mille opportunità, business, cultura, comodità (no, comodità no). Ma non è questo che intendo. Il male che si fa a una città esaltandone solo i lati positivi e fingendo di non vedere quelli negativi perché non sono ‘instagrammabili’ ha delle conseguenze, soprattutto su chi ci vive.

Milano, prima in classifica per qualità della vita 2019

Mi diverto in particolare a seguire gli account instagram di chi ci vive da pochi mesi e posta foto filtratissime in cui i colori di una Milano grigia e piovosa vengono virati ai colori pantone di moda quest’anno.

Negozio Lego a San Babila

E rido a leggere influencer che consigliano locali aperti da un mese come luoghi imperdibili tipici della Milano vera. Perché uno dei tanti danni lasciati da Expo sono proprio le centinaia di bar, ristoranti, focaccerie, pizzerie, risotterie, toasterie… che aprono e chiudono di continuo per riciclare danaro, e vengono ristrutturati, chiusi e riaperti dopo essere di nuovo ristrutturati.

Milano, le vie dello shopping

Riflettete un attimo prima di postare, cari influencer: per capire una città, che sia Milano o qualsiasi altra, bisogna vedere e fotografare tutto, anche i mendicanti che stazionano a ogni angolo della strada e fuori da ogni supermercato: rom, sinti, nigeriani, italiani.

Milano, Corso Venezia

Bisogna raccontare nei post anche la maleducazione negli uffici pubblici, o l’impossibilità di trovare un taxi a ogni ora del giorno, l’ansia che cresce a dicembre quando la città va in tilt per il traffico, magari piove e ti piazzano anche una manifestazione che costringe tutti a spostare impegni di lavoro o familiari. E provare poi ad andare in un bagno qualsiasi, di un bar o di un cinema (un’esperienza mistica la potete provare se vi capita di andare al Tribunale di Milano e avete bisogno di fare pipì).

L’abbellimento della realtà va bene per vendere un prodotto, e se Milano è diventata solo un prodotto da vendere, gli amministratori di Palazzo Marino facciano una riflessione, disinteressata.

Buon Natale a tutti i nuovi milanesi! L’augurio di cuore è che non vi siate fatti attirare in questa città solo da una sofisticata operazione di marketing post expo.

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Blog vs Instagram

12 Dicembre 2019 by costanza Leave a Comment

selfie in camera da letto

Se avete notato i post su instagram sono diventati sempre più lunghi e articolati rispetto ai primi tempi. La formula: foto + testo lunghissimo e motivazionale sta diventando la norma. Perché funziona e fidelizza i followers. Mi faccio paura da sola a usare nella stessa frase il verbo fidelizzare e il sostantivo follower.

I motivi sono vari, prima di tutto che gli utenti hanno ormai abbandonato siti, blog e anche facebook, tutti luoghi in cui la scrittura aveva un ruolo importante e si sono spostati su intagram dove l’immagine è ‘the king’. Però però se usi solo ed esclusivamente immagini diventa un album delle figurine panini, bello ma inutile.

E qui i guru del social media marketing hanno iniziato a fare meno foto, ma con testi motivazionali e profondi, si fa per dire, per vendere pentole/coaching/corsi/makeup…

E allora mi chiedo: mi piace scrivere, articolare il mio pensiero e devo ridurmi a farlo su uno smartphone per essere letta mentre uno attraversa la strada? O peggio, devo confezionare stories a go go, con testi pieni zeppi di refusi mentre sono al bar a mangiare un piatto di avocado toast?

Ho capito da un bel po’ che adeguarsi senza spirito critico al nuovo che avanza può essere un segno di modernità ma anche di stupidità. Per cui mi sono detta: ma il buon caro vecchio blog? Forse ha ancora senso, posso scrivere dal mio computer con megamonitor, pensare e rileggere quello che scrivo. Senza fretta.

E le stories che testimoniano partecipazione a eventi/party/convegni… a me non servono poi a molto, dal momento che la mia massima aspirazione è starmene seduta a scrivere.

Lascio dunque il piacere di creare stories glamourous a chi non ha ancora raggiunto la saggezza dei miei cinquant’anni.

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La verità, vi prego, sull’editoria

11 Dicembre 2019 by costanza 1 Comment

giornalismo
il giornalismo non paga

Non conosco Barbara D’Amico, so solo che scrive per il Corriere della Sera, o meglio scriveva, dal momento che non collabora più perché le hanno ulteriormente tagliato il compenso, già misero.

Da oggi interrompo la collaborazione con il Corriere della Sera e in particolare con la sezione per cui scrivo da anni, La Nuvola del Lavoro. Voglio spiegarvi bene le ragioni di questo stop.

La prima è di natura pragmatica. Per la seconda volta da quando collaboro con la testata i compensi lordi per gli articoli online sono stati arbitrariamente abbassati, stavolta del 25% (la prima volta fu del 50%: da 40 euro lordi a 20 euro lordi ora siamo a 15 euro lordi). (…)

Che i lauti guadagni dei collaboratori dei giornali fossero questi lo sapevo, mi stupisco che qualcuno finalmente abbia detto: ‘No, grazie. Non accetto la vostra mancetta’.

Rewind: 1998, Milano. Esordi dei siti internet, nasce una forma di editoria online molto più agile dei giornali classici, primi successi, primi guadagni con la pubblicità embrionale del web, primi malumori da parte dei giornalisti che guardano con sospetto questi ‘intrusi’.

Noi ‘dell’internet’ non siamo giornalisti e se vogliamo scrivere e pubblicare online dobbiamo registrare presso il Tribunale il nostro sito, e poi munirci di patentino da giornalisti, dicono loro.

Io vado avanti per la mia strada, nessun patentino, vengo da un lavoro di editor e so scrivere discretamente, conosco grammatica e ortografia, becco i refusi a un miglio di distanza e il mio hobby è trovare strafalcioni grammaticali sui giornali. Così quando pubblico qualcosa su carta stampata (gratis, in cambio di visibilità) viene doverosamente sottolineata la mia appartenenza a un sito internet e non all’ordine dei giornalisti, che non sa ancora dello tsunami in arrivo nell’editoria tradizionale.

Anni 2000: i siti internet vanno in crisi causa blog prima e facebook poi e parallelamente l’editoria cartacea va a catafascio. I giornalisti stentano a tenersi un posto di lavoro, i lavoratori del web muoiono di fame. La media a post è di 5 o 10 3 euro, ma devi avere la partita Iva.

Inizia l’era degli schiavi pseudocreativi che lavorano da casa di mamma e papà nonostante la laurea, o dallo spazio coworking più figo della cameretta in cui sei cresciuto, e però hanno il nome in calce ai loro post (ormai non si chiamano nemmeno più articoli), devono sapere di wordpress o html, maneggiare immagini, editare, postare e soprattutto diffondere il verbo ai loro follower. Il tutto per 5 euro 3 euro lordi a pezzo. Ai più fortunati addirittura 10. (E se questi euro vengono dati da una società del web che fatica a sostenersi li posso anche capire, se invece sono pagati dai grandi editori ti girano non poco, perché chi manda avanti oggi i siti dei maggiori quotidiani sono i collaboratori esterni sottopagati.)

Passano ancora gli anni e ogni tanto mi chiedo come mai i giornalisti non scioperino più, ma poi capisco che all’interno delle redazioni ci sono due mondi: i giornalisti assunti, anziani e pochi con stipendio e che vivono ormai nei talk in tv perché sono aggrappati come cozze alla visibilità, che è la sola cosa che li identifica come professionisti visto che nessuno più legge i giornali.

E poi tutti gli altri, una miriade di collaboratori esterni, giovani, preparati, svegli e veloci, che vengono sfruttati con il miraggio di affermare il proprio nome e poi chissà, magari pubblicheranno anche un libro, solo se nel frattempo si saranno fatti una corte di followers per assicurare la vendibilità di un loro eventuale manoscritto. Un libro del tipo: ‘Vi spiego come avere successo’ o ‘Vi racconto io come essere felici’, scritto da venti/trentenni che non sanno come arrivare a fine mese, però hanno migliaia di followers.

I vecchi giornalisti di tutto questo fingono di non sapere, nessuna inchiesta, nessuna solidarietà, forse perché gli editori contano i giorni per mandarli in pensione ed essere liberi di usare solo collaboratori sottopagati. E i giornalisti a loro volta, in vista dell’agognato ritiro dal lavoro, non creano problemi all’editore.

Un accordo tacito, ma funzionale.

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Un giorno di pioggia a New York

10 Dicembre 2019 by costanza Leave a Comment

Ammiro il coraggio di Lucky Red che ha deciso di distribuire in Italia l’ultimo film di Woody Allen, Un giorno di pioggia a New York. Una delle ‘solite’ commedie di Allen, di quelle che eravamo abituati ad aspettare tutti gli anni a dicembre. Eppure era un bel po’ che non ne vedevamo a causa di tutta l’ondata di odio nei suoi confronti.

Il film praticamente è uscito in Italia e pochi altri posti.

Gli attori hanno pensato bene di prendere le distanze dal regista, non appena i media americani lo hanno inondato di critiche, tirato in mezzo all’ondata del #metoo, dopo gli articoli che ripescavano dal passato le accuse mossegli prima da Mia Farrow negli anni del divorzio, e adesso dai figli Ronan Farrow e sorella.

Non prendo le difese di Woody Allen non avendo elementi in mano per poter sapere la verità, ma i suoi film restano per me un pezzo di cultura del novecento e anche degli anni duemila.

Sono andata a vedere la nuova commedia, Un giorno di pioggia a New York, e me la sono goduta a pieno: tema centrale, battute, costruzione della storia e fotografia come sempre impeccabili.

Da vedere sicuramente.

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Criceti o giullari

10 Dicembre 2019 by costanza Leave a Comment

Ma nel mondo del prossimo futuro i miei figli dovranno fare i clown per lavorare? Questo è uno dei miei tanti timori da mamma di adolescenti.

Cerco di spiegarmi meglio: fino alla rivoluzione digitale per trovare lavoro bisognava studiare, specializzarsi o fare pratica per imparare un mestiere. E poi andare a cercare lavoro.

Oggi la rivoluzione economica causata dal digitale, che vede i giovani in età da lavoro, preparati più di noi, che sono contenti di poter scrivere un articolo su qualche quotidiano online a 5 euro al pezzo, a esercitare la professione di avvocato a 900 euro lordi al mese, il medico gratis per i primi anni e poi sottopagati e costretti a emigrare… la sola salvezza sembra essere fare i giullari. Pare che i giullari online, conosciuti anche come ‘influencer’, siano gli unici felici e contenti. Così pare a seguire le stories e i post (cioè, spiegato meglio: il racconto dettagliato della propria vita intima minuto per minuto). 

I giullari guadagnano, presenziano continuamente a feste, party esclusivi, sono glamour, sanno come fotografarsi e truccarsi, sono spigliati e hanno la battuta pronta… Questo è il modello che devono seguire i nostri figli? Temo di sì, dovranno rinunciare alla sfera privata, perché con i vari modo di geolocalizzarsi (tinder ne sai qualcosa?) di proporsi, senza confini tra pubblico e privato… una fatica immane, una tortura per chi come me è nato in un mondo in cui se ti chiudevi la porta di casa alle spalle, chiudevi il mondo fuori. Adesso il mondo è nella tua camera da letto, in palestra, in bagno e anche al lavoro. Non finisce mai, non stacchi mai la spina, devi narrarti di continuo, esibire, mostrare. Se fai un viaggio devi raccontarlo da quando esci da casa e arrivi in aeroporto a quando torni sfatto dal jet lag e dalla vacanza.

I social fanno parte della nostra identità, se compili il modulo per entrare negli Usa ti chiedono di elencare i tuoi account social, così, tanto per curiosarci e capire chi sei… mi immagino i colloqui di lavoro di qui in poi in cui dovrai esibire il tuo book fotografico digitale, con le stories e tutto il resto, così, tanto per farti conoscere. 

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Troppo vecchia per i selfie

10 Dicembre 2019 by costanza Leave a Comment

Troppo vecchia per i selfie

Mio figlio mi chiede spesso perché non posto foto mie su instagram.

Gliel’ho spiegato molte volte ma non l’ho mai convinto.

Cerco di farlo qui: appartengo a una generazione in cui l’autocelebrazione non era contemplata, forse per colpa dell’educazione cattolica? Anche, ma non solo.

Certo è che negli anni 80, quando andavo al liceo, non erano molte le ragazze che si truccavano, presentarsi a scuola con fondotinta e rimmel non era qualcosa che si faceva, che non si sposava bene con lo studio. Sicuramente mi sbagliavo, era un preconcetto, ma fatto sta che anche all’università e soprattutto il giorno della laurea nessuna si sarebbe mai presentata con minigonna e tacchi a spillo, come vedo quando ci sono le sessioni di laurea alla Statale di Milano.

Tornando a selfie e foto personali in genere, non riesco, nonostante sia online da sempre e abbia vissuto in prima persona l’evoluzione dal website a blog a social, (e di lì alla deriva narcisistica di chi è andato online via via che passavano gli anni), dicevo che non riesco a mettere la mia faccia online pensando che possa fregarne a qualcuno. Onestamente, a chi interessa se sono andata a un evento o a un party? Davvero siamo messi così male da immedesimarci nella vita non più dei divi di Hollywood, ma delle casalinghe di Voghera?

Vengo da un mondo in cui l’egotismo e il narcisismo erano competenza degli psichiatri, oggi chiamati affettuosamente ‘psy’ dal popolo dei social.

Per cui, sì, credo di essere decisamente troppo vecchia per capire il senso di postare la cronistoria minuto per minuto della propria vita.

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