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La verità, vi prego, sull’editoria

11 Dicembre 2019 by costanza Leave a Comment

giornalismo
il giornalismo non paga

Non conosco Barbara D’Amico, so solo che scrive per il Corriere della Sera, o meglio scriveva, dal momento che non collabora più perché le hanno ulteriormente tagliato il compenso, già misero.

Da oggi interrompo la collaborazione con il Corriere della Sera e in particolare con la sezione per cui scrivo da anni, La Nuvola del Lavoro. Voglio spiegarvi bene le ragioni di questo stop.

La prima è di natura pragmatica. Per la seconda volta da quando collaboro con la testata i compensi lordi per gli articoli online sono stati arbitrariamente abbassati, stavolta del 25% (la prima volta fu del 50%: da 40 euro lordi a 20 euro lordi ora siamo a 15 euro lordi). (…)

Che i lauti guadagni dei collaboratori dei giornali fossero questi lo sapevo, mi stupisco che qualcuno finalmente abbia detto: ‘No, grazie. Non accetto la vostra mancetta’.

Rewind: 1998, Milano. Esordi dei siti internet, nasce una forma di editoria online molto più agile dei giornali classici, primi successi, primi guadagni con la pubblicità embrionale del web, primi malumori da parte dei giornalisti che guardano con sospetto questi ‘intrusi’.

Noi ‘dell’internet’ non siamo giornalisti e se vogliamo scrivere e pubblicare online dobbiamo registrare presso il Tribunale il nostro sito, e poi munirci di patentino da giornalisti, dicono loro.

Io vado avanti per la mia strada, nessun patentino, vengo da un lavoro di editor e so scrivere discretamente, conosco grammatica e ortografia, becco i refusi a un miglio di distanza e il mio hobby è trovare strafalcioni grammaticali sui giornali. Così quando pubblico qualcosa su carta stampata (gratis, in cambio di visibilità) viene doverosamente sottolineata la mia appartenenza a un sito internet e non all’ordine dei giornalisti, che non sa ancora dello tsunami in arrivo nell’editoria tradizionale.

Anni 2000: i siti internet vanno in crisi causa blog prima e facebook poi e parallelamente l’editoria cartacea va a catafascio. I giornalisti stentano a tenersi un posto di lavoro, i lavoratori del web muoiono di fame. La media a post è di 5 o 10 euro, ma devi avere la partita Iva.

Inizia l’era degli schiavi pseudocreativi che lavorano da casa di mamma e papà nonostante la laurea, o dallo spazio coworking più figo della cameretta in cui sei cresciuto, e però hanno il nome in calce ai loro post (ormai non si chiamano nemmeno più articoli), devono sapere di wordpress o html, maneggiare immagini, editare, postare e soprattutto diffondere il verbo ai loro follower. Il tutto per 5 euro lordi a pezzo. Ai più fortunati addirittura 10. (E se questi euro vengono dati da una società del web che fatica a sostenersi li posso anche capire, se invece sono pagati dai grandi editori ti girano non poco, perché chi manda avanti oggi i siti dei maggiori quotidiani sono i collaboratori esterni sottopagati.)

Passano ancora gli anni e ogni tanto mi chiedo come mai i giornalisti non scioperino più, ma poi capisco che all’interno delle redazioni ci sono due mondi: i giornalisti assunti, anziani e pochi con stipendio e che vivono ormai nei talk in tv perché sono aggrappati come cozze alla visibilità, che è la sola cosa che li identifica come professionisti visto che nessuno più legge i giornali.

E poi tutti gli altri, una miriade di collaboratori esterni, giovani, preparati, svegli e veloci, che vengono sfruttati con il miraggio di affermare il proprio nome e poi chissà, magari pubblicheranno anche un libro, solo se nel frattempo si saranno fatti una corte di followers per assicurare la vendibilità di un loro eventuale manoscritto. Un libro del tipo: ‘Vi spiego come avere successo’ o ‘Vi racconto io come essere felici’, scritto da venti/trentenni che non sanno come arrivare a fine mese, però hanno migliaia di followers.

I vecchi giornalisti di tutto questo fingono di non sapere, nessuna inchiesta, nessuna solidarietà, forse perché gli editori contano i giorni per mandarli in pensione ed essere liberi di usare solo collaboratori sottopagati. E i giornalisti a loro volta, in vista dell’agognato ritiro dal lavoro, non creano problemi all’editore.

Un accordo tacito, ma funzionale.

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Un giorno di pioggia a New York

10 Dicembre 2019 by costanza Leave a Comment

Ammiro il coraggio di Lucky Red che ha deciso di distribuire in Italia l’ultimo film di Woody Allen, Un giorno di pioggia a New York. Una delle ‘solite’ commedie di Allen, di quelle che eravamo abituati ad aspettare tutti gli anni a dicembre. Eppure era un bel po’ che non ne vedevamo a causa di tutta l’ondata di odio nei suoi confronti.

Il film praticamente è uscito in Italia e pochi altri posti.

Gli attori hanno pensato bene di prendere le distanze dal regista, non appena i media americani lo hanno inondato di critiche, tirato in mezzo all’ondata del #metoo, dopo gli articoli che ripescavano dal passato le accuse mossegli prima da Mia Farrow negli anni del divorzio, e adesso dai figli Ronan Farrow e sorella.

Non prendo le difese di Woody Allen non avendo elementi in mano per poter sapere la verità, ma i suoi film restano per me un pezzo di cultura del novecento e anche degli anni duemila.

Sono andata a vedere la nuova commedia, Un giorno di pioggia a New York, e me la sono goduta a pieno: tema centrale, battute, costruzione della storia e fotografia come sempre impeccabili.

Da vedere sicuramente.

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Criceti o giullari

10 Dicembre 2019 by costanza Leave a Comment

Ma nel mondo del prossimo futuro i miei figli dovranno fare i clown per lavorare? Questo è uno dei miei tanti timori da mamma di adolescenti.

Cerco di spiegarmi meglio: fino alla rivoluzione digitale per trovare lavoro bisognava studiare, specializzarsi o fare pratica per imparare un mestiere. E poi andare a cercare lavoro.

Oggi la rivoluzione economica causata dal digitale, che vede i giovani in età da lavoro, preparati più di noi, che sono contenti di poter scrivere un articolo su qualche quotidiano online a 5 euro al pezzo, a esercitare la professione di avvocato a 900 euro lordi al mese, il medico gratis per i primi anni e poi sottopagati e costretti a emigrare… la sola salvezza sembra essere fare i giullari. Pare che i giullari online, conosciuti anche come ‘influencer’, siano gli unici felici e contenti. Così pare a seguire le stories e i post (cioè, spiegato meglio: il racconto dettagliato della propria vita intima minuto per minuto). 

I giullari guadagnano, presenziano continuamente a feste, party esclusivi, sono glamour, sanno come fotografarsi e truccarsi, sono spigliati e hanno la battuta pronta… Questo è il modello che devono seguire i nostri figli? Temo di sì, dovranno rinunciare alla sfera privata, perché con i vari modo di geolocalizzarsi (tinder ne sai qualcosa?) di proporsi, senza confini tra pubblico e privato… una fatica immane, una tortura per chi come me è nato in un mondo in cui se ti chiudevi la porta di casa alle spalle, chiudevi il mondo fuori. Adesso il mondo è nella tua camera da letto, in palestra, in bagno e anche al lavoro. Non finisce mai, non stacchi mai la spina, devi narrarti di continuo, esibire, mostrare. Se fai un viaggio devi raccontarlo da quando esci da casa e arrivi in aeroporto a quando torni sfatto dal jet lag e dalla vacanza.

I social fanno parte della nostra identità, se compili il modulo per entrare negli Usa ti chiedono di elencare i tuoi account social, così, tanto per curiosarci e capire chi sei… mi immagino i colloqui di lavoro di qui in poi in cui dovrai esibire il tuo book fotografico digitale, con le stories e tutto il resto, così, tanto per farti conoscere. 

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